Un racconto di Paolo Zardi: CELLULE

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francesca
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Un racconto di Paolo Zardi: CELLULE

Messaggio da francesca »

rosaria1956
copio il testo di questo racconto che è stato oggeto di nostre "riflessioni" nella sezione apposita:
http://reumamici.forumcommunity.net/?t= ... t#lastpost

il racconto è stato letto e copiato da questo sito:
http://www.creaplex.com/cellule.pdf

PRECISAZIONI dell'autore:
Attenzione: questo racconto tratta argomenti legati alla sofferenza e alla malattia. Ti sconsiglio la lettura se sei una persona sensibile su questi argomenti.

Attenzione #2: questo racconto parla della Sindrome di Sjögren, ma non in modo clinico, né tanto meno rigoroso. L'evoluzione di questa malattia può avere esiti completamente diversi e meno drammatici di quelli descritti.


Cellule di Paolo Zardi
febbraio 2008
tutti i diritti riservati


“Mi ascolta? Mi sta ascoltando?”
“Certo, signora, sono qui...”
“Lo vedo che è qui, ma ha capito cosa le ho detto?”
“Mi pare di sì. Stivali più alti. Più stretti.”
“Ho detto anche scamosciati. Sca-mo-scia-ti.”
“Non avevo capito, scusi.”
“Gliel'ho detto: non mi sta ascoltando, lei non mi sta ascoltando.”
La commessa sta in piedi - il collo lungo come quello di una giraffa e un paio di stivali enormi in braccio –
con lo sguardo rivolto verso una signora che, seduta sulle bassissime poltroncine del divanetto verde del
negozio di scarpe del centro commerciale “Giotto”, Padova, cerca – inutilmente - di far entrare un piede
dentro ad uno stivale.
“Non entra.”
“No, in effetti non entra.”
“Be', non pensa di aiutarmi?”
“Sì”, risponde quasi sottovoce la commessa, e mentre si inginocchia, con gli stivali ancora in braccio, cerca
con lo sguardo qualcuno – un'altra commessa, il titolare del negozio, un passante impietosito – che venga lì,
a schiaffeggiare quella donna arrogante che da mezz'ora la tormenta con ogni genere di richiesta.
“Ehi! Qui nessuno mi ascolta!”
La finestra dello studio del dottore guarda verso Prato della Valle – una delle viste più belle del Veneto,
pensa la signora, specialmente a quest'ora, quando il sole calante arrossisce la facciata della Chiesa di Santa
Giustina. I vetri sono appena socchiusi – l'aria profumatissima di marzo è quasi frizzante – e si sentono le
voci dei suoi figli che giocano proprio sotto lo studio – la signora si sporge un po', e li vede, entrambi in
bicicletta: si rincorrono sulla pista del pattinaggio che circonda l'isola Memmia, seguiti dallo sguardo vigile
del loro padre – cioè del marito della signora, quell'uomo premuroso e ragionevole, e paziente, che non
smette mai di incoraggiarla. Il dottore tarda ad arrivare; lei, intanto, cerca di gestire un'ansia fuori controllo.
Sa di stare male, sa di stare male da tempo, e sa che in qualche modo è arrivato il momento di conoscere la
sentenza: perché allora le sembra eterna, questa attesa? Non sarebbe più sensato considerare comunque
troppo breve, questo segmento di tempo che la separa dall'inizio di un incubo con nome e cognome? Si
sporge ancora un po'. Uno dei suoi figli corre così veloce, che nessuno riesce a stargli dietro.
“Mi bruciano gli occhi.”
“Lo so, amore.”
“Mi sembra di avere della sabbia sotto le palpebre.”
“Ti sei messa le lacrime?”
“Sì. Credo che stia peggiorando.”
“Forse sei solo stanca.”
“Forse sto solo peggiorando.”
“Io credo che tu sia solo stanca.”
“Ah sì? E come mai credi che io sia solo stanca?”
“Perché non c'è nessun motivo per cui i tuoi occhi debbano essere più secchi di ieri.”
“E non c'è nessun motivo per cui non lo debbano essere. Spegni la luce, mi dà fastidio. Leggerai domani.”
“Sì. Vedrai che andrà bene.”
“Andrà meglio, non andrà bene. Non può andare bene.”
“Può andare meglio, sì.”
“No, non può neanche andare meglio. Può solo andare peggio. Ogni giorno avrò gli occhi più secchi. Ogni
giorno avrò la bocca più asciutta. Ogni giorno scoprirò un nuova giuntura che mi farà male.”
“Io però sarò sempre vicino a te.”
“Vicino? Sei lì, sulla tua parte di letto. Vicino a chi?”
“Così va meglio? Così sono più vicino?”
“Se questo è vicino, allora essere vicina a te non mi serve a niente. Gli occhi mi bruciano come prima. A te
bruciano?”
“No...”
“Allora cosa mi serve che tu sia qui, se gli occhi a me bruciano e a te no? Hai la bocca secca? Ti ritrovi anche
tu la mattina con la lingua incollata al palato? Hai già perso un dente?”
“Questo non significherebbe esserti vicina: vorrebbe solo dire che ho la tua stessa malattia. E se io ce
l'avessi, tu staresti meglio?”
“Meglio? No. Ma almeno non dovrei sopportare le tue rassicurazioni senza alcun fondamento. Staresti zitto
anche tu.”
“Dovrei stare zitto?”
“No, no, parla. Se ti fa piacere, parla pure.”
“Non è una questione se fa piacere a me, ma se fa piacere a te!”
“A me? Senti qua. Dammi il tuo dito. Ecco: riesci a sentire che nella mia bocca non c'è una goccia di saliva?”
“...”
“Ok, ora prova a parlare e dimmi se sei in grado di percepire anche una minima differenza, nella mia
secrezione salivare. Ci riesci? No? Allora: che parli a fare?”
“Non credo di meritare di essere trattato in questo modo.”
“Non credo di meritare la mia sindrome.”
“La sindrome non ha fatto nessuna scelta. E' un caso. Tu invece hai scelto me, e io ho scelto di stare con te.”
“E allora?”
“E allora tu puoi decidere come trattarmi.”
“Cioè, fammi capire... adesso il problema non è la mia malattia, ma il modo in cui io ti tratto?”
“Il problema è la malattia e il modo in cui tu mi tratti.”
“Ripetilo, se hai coraggio.”
“Perché?”
“Stai mettendo sullo stesso piano la mia malattia con il modo con il quale io tratto te? Sei folle o cosa?”
“No. Sto dicendo che tu non puoi scegliere se essere malata o meno, ma puoi decidere se trattarmi bene o
no! Non credo sia una follia, dirlo!”
“Allora ho deciso. Non ho nessuna voglia di trattarti bene.”
“...”
“Ah, domani ricordati di comprarmi le lacrime. Stanno finendo.”
“Ok.”
“E smettila di pensare che io sia pazza. Si sente fino a qua.”
“Tuo marito sta cercando di aiutarti.”
“Mio marito non può aiutarmi.”
“Essere al tuo fianco è meglio di niente. E' molto meglio di niente.”
“I miei occhi mi bruciano ogni giorno di più.”
“Ma non è colpa di tuo marito.”
“Non è neanche colpa mia. Io sto male. Lui mi dice che mi è vicino, ma cosa mi cambia?”
“E se fosse lontano? Se avesse mollato la presa, se se ne fosse fregato di te, dei tuoi problemi?”
“Cosa sarebbe cambiato? Sentiamo. Starei peggio?”
“Non avresti il suo amore!”
“E cosa me ne faccio del suo amore? Mi farà guarire? Potrò riavere una vita normale? Quella che avevo
prima?”
“Quello non dipende da lui.”
“E allora lui non mi serve. Anzi, sai cosa ti dico? Che non mi servono neanche queste stronzate che dici tu.
Trova un modo di farmi tornare la saliva, e poi chiamami.”
“Pronto?”
Alla sera, cosparge i propri occhi con un unguento – le lacrime artificiali non bastano più, per la
cherocongiuntivite secca, o KCS, come la chiamano i dottori: un nome così complicato, o così semplice, per
dire che le sue ghiandole lacrimali hanno smesso di funzionare. Ogni tanto passa in rassegna le mostruosità
che la aspettano: la xerostomia, i coinvolgimenti extraghiandolari, il Lupus, le parestesie, la sindrome del
tunnel carpale, la polimiosite, il fenomeno di Raynaud. Le ripete nel sonno agitato, con la segreta speranza
di arrivare a consumarle, le parole: a renderle innocue.
“Cos'è, sta roba?”
“Scusi?”
“Hai l'AIDS? Questo fiocchetto rosso, qui, attaccato al bavero della tua giacca... Significa che hai l'AIDS?”
“Significa che io sostengo la lotta contro l'AIDS, signora.”
“E ce l'hai, l'AIDS?”
“Perché dovrei averla?”
“Ce l'hai?”
“Scusi, signora, non capisco il senso di questa conversazione. E lei usa un tono che sinceramente non posso
accettare.”
“E lei ha un coso, qui, che io non posso accettare. Non sa neanche di cosa sta parlando.”
“E' assurdo. Io scendo alla prossima fermata, mi faccia passare.”
“E' assurdo lo dico io! Sai quanto gliene può fregare ad un malato di AIDS se tu ti attacchi questa ridicola
spilletta sul tuo bavero? Cos'è, un modo per pensare ad altro? Per sentirti un po' più buono quando ti guardi
allo specchio?”
(“Amore, lascia stare. E' un suo diritto. E' meglio di uno che non fa nulla.”
“Tu non rompere il cazzo. Guarda fuori dal finestrino.”)
“Lei ha l'AIDS? E' questo che sta cercando di dirmi? Che lei ha l'AIDS e che quindi io non posso mettermi una
spilletta per dire che sostengo la lotta contro l'AIDS?”
“Non ho l'AIDS. Se avessi l'AIDS ti avrei già sputato in bocca un po' di HIV. Ma non posso neanche sputarti
addosso, neanche sul bavero. Ho la sindrome di Sjogren.”
“E cos'é?”
“Ecco. Chi sostieni, tu? Ti preoccupi per i negri malati di AIDS, e non sai neanche che nel tuo stesso
autobus, proprio davanti a te, hai una signora malata, della quale non te ne frega assolutamente un cazzo di
niente. Mi vedi? Esisto. Ho una malattia che potrebbe avere anche tua madre.”
“Signora, mi spiace davvero per lei,ma non posso preoccuparmi di ogni malattia del mondo.”
“Ah sì? E quale sceglie? Come le sceglie, queste malattie? Dal nome? Dal numero di morti?”
“Scendo qui.”
“Scendi dove vuoi. Vai a sostenere i malati di AIDS via Internet. Non sapranno come ringraziarti, quando
moriranno.”
“Non so più come fare.”
“Non si trovano cure?”
“No, non esistono cure. Ma il problema non è solo quello.”
“Cos'ha, esattamente, tua moglie?”
“La sindrome di Sjogren. E' una malattia autoimmune. Se cerchi su Internet, vedrai che scrivono che non è
molto diffusa. Sai quante persone sono affette, da questa sindrome?”
“No..”
“Da uno a quattro milioni. Nel mondo, ovviamente. Una persona ogni 5000. Vuol dire che qui a Padova ce ne
sono 50, delle quali una è mia moglie. Sarebbe bello sapere come le sceglie, le sue vittime, questa malattia.”
“Non ne ho mai sentito parlare...”
“Il corpo distrugge le proprie ghiandole salivari e lacrimali. Sembra poco, no? Cioè, non credo che queste
ghiandole, in tutto, possano pesare più di qualche grammo. Però se non le hai...”
“Immagino che sia una bella seccatura.”
“No, non è una seccatura. E' qualcosa di impossibile da accettare. Si seccano gli occhi, e si secca la bocca. E'
come avere sabbia sotto le palpebre, e un batuffolo di cotone in mezzo alla lingua, ogni momento del giorno
e della notte. Significa, un po' alla volta, perdere l'uso della vista. Significa perdere i denti, subire
deformazioni reumatiche, rischiare un linfoma, non deglutire.”
“Perdere i denti?”
“La saliva è un mezzo di disinfezione della bocca. I denti, senza saliva, si cariano tutti, uno dopo l'altro. Le
gengive si infiammano si ritirano. Piorrea. Qualche settimana fa ho sfilato io un molare dalla bocca di mia
moglie, a mani nude. Ha 43 anni.”
“E' terribile. Non so come riesci a rimanere così sereno – da fuori sembri tranquillo, compatto.”
“Ed è progressiva. Se sei sfortunato, poi prende polmoni, articolazioni, reni, sistema nervoso, pelle...”
“Speriamo che tua moglie sia fortunata, allora.”
“Non è stata fortunata.”
“Oh... mi spiace.”
“Ma il punto è che non c'è solo questo. Cioè non c'è solo questa sua malattia.”
“Che altro?”
“Lei... lei sembra impazzita. Una certa forma di demenza era uno dei sintomi previsti, specialmente nelle fasi
terminali. Ma nel suo caso, è diverso. Il suo cervello funziona perfettamente. Ma sembra che abbia deciso di
dire tutto quello che le passa per la testa. E tu non hai idea di cosa le passa per la testa, in questo periodo:
sembra che odi il mondo. Odia soprattutto me, e sembra che l'unico motivo per il quale mi odia è perché non
sono malato. Cerco di starle il più vicino possibile, sto tirando su i ragazzini praticamente da solo – e tieni
conto che lei sarebbe in grado di farlo, e che anzi, potrebbe farla stare meglio, un'occupazione come quella,
e invece devo difenderli da lei. Li aggredisce per ogni cosa. E aggredisce me, a volte anche fisicamente. Io
non so più cosa fare.”
“E' una situazione complicata. La malattia può trasformare le persone. A volte anche in meglio. Mia madre è
morta di tumore alle ossa, un'agonia che è durata mesi, ma non ha mai perso il sorriso. Quando le ero
seduto accanto, ed ero stravolto dal dolore, dalla fatica di dover assistere ad una sofferenza terrificante, e
ingiusta, senza alcun mezzo psicologico che fosse, come dire, adeguato – capisci, non ci può preparare, a
questo genere di cose - lei mi incoraggiava dicendo di non preoccuparmi, che presto tutto questo sarebbe
passato. Cioè che sarebbe morta, e finalmente avremmo smesso di soffrire... Me lo diceva lei. A me.”
“Ha l'impressione che nessuno la stia ascoltando. E se qualcuno come me l'ascolta, dice che non serve a
niente. A volte, quando passeggiamo per strada – succede sempre meno spesso – indica le persone e mi
chiede: che ne sanno loro? Camminano e se ne fottono di quelle come me: così mi dice. Per lei quello che è
successo è una terribile ingiustizia – non solo il fatto che lei si sia ammalata di una cosa così assurda, così
frustrante, e anche, per certi versi, così invisibile – non c'è solo quello.. la pena più grande, per lei, quella
che la fa stare veramente male, è il fatto che gli altri non abbiano avuto la sua stessa sorte.”
“Quando è morta, mia madre, ho sentito un grande dolore, ma anche un enorme senso di liberazione. Per
lei, e per noi. Perché la domanda era sempre quella: come potevamo aiutarla? C'era un cancro, che spezzava
le ossa, invadeva gli interstizi, avvelenava il sangue. Noi eravamo di qua del muro. Ma tua moglie, che
consolazione avrebbe, se fossero tutti malati?”
“Si sentirebbe meno sola. E' convinta che solo lei è in grado di capire cosa sia veramente il male. Per questo,
ad esempio, non accetta nessun aiuto da parte mia: ritiene che io non abbia il diritto di incoraggiarla, di farle
forza – dice che parlo di cose che non so.”
“Deve essere dura, per te... Mia madre ci ha aiutato a sopportare la sua malattia... Ma non sono tutti uguali,
no?”
“Sì.. però, vedi, il problema è che ha ragione.”
“Eh?”
“Guarda questa nostra conversazione. Cosa puoi fare tu, per me?”
“Posso cercare di darti coraggio, no? Non è quello che sto facendo? Ti dimostro la mia comprensione, la mia
empatia. Ti dico come ho gestito io situazioni analoghe a questa. Mi sembra sia importante...”
“Però tra poco metteremo giù, e tu tornerai alla tua famiglia; io, invece, sarò di nuovo a casa mia, da mia
moglie; e sarà tutto esattamente uguale a prima. Prima mi ha chiamato, e mi ha detto che c'è un dente in
bilico: forse questa sera dovrò aiutarla a toglierlo - io, non tu. E, onestamente, il fatto che tua madre sia
stata malata, non mi sarà di alcun giovamento, questa sera, capisci? Mi sei vicino, certo, ma non cambia
niente – almeno non da questo punto di vista. E io sono vicino a lei, sì, ma quando mi dice che le sembra
che le dita si stiano spezzando, come posso sentire quello che sta provando? Ha ragione lei, purtroppo –
dovremmo essere dentro, o al posto di: essere vicini non ha mai salvato nessuno...”
“Sei stata tu a volerlo vedere. Possiamo girare, quando vuoi.”
“Sei stata tu a volerlo vedere. Bene, bene, perciò ora non posso più parlare, non posso dire che questo
spettacolo è semplicemente abominevole, e che è abominevole che ci siano persone che lo guardano!”
“Amore, puoi dire quello che vuoi... Se non ti va di vederlo, cambiamo canale. O spegniamo, che è ancora
meglio.”
“Spegniamo, così sentiamo il nostro silenzio. E' meraviglioso, no? Noi che non ci diciamo neanche una
parola. O pensavi di fare qualcos'altro?”
“Se non ti piace Telethon, che, ripeto, hai chiesto tu di vedere, possiamo vedere un DVD, o possiamo
chiacchierare.”
“Certo, chiacchieriamo del più e del meno. Facciamo finta che io stia bene. Ti va? Deve essere
divertentissimo. Alla fine facciamo anche finta che io ti sputo addosso – non mi sembrerebbe vero di poterlo
fare!”
“Facciamo finta che siamo due persone che si vogliono bene. Vuoi?”
“Oh, ma allora qui si fa dell'ironia! Cos'è tutto questo buon umore?”
“Cosa vuoi fare?”
“Devo decidere sempre io?”
“Spegniamo la televisione e parliamo.”
“Va bene, spegniamo la televisione e parliamo. Ecco. Dai, parla.”
“Hai voglia che organizzi un viaggio?”
“A Lourdes, dai, che bella idea.”
“...”
“Dai, parla.”
“...”
“Che cazzo stai facendo?”
“Che cosa vuoi che faccia? Piango!”
“Piangi? Tu? Tu piangi qui, davanti a me?”
“Ma non lo vedi cosa sta diventando la nostra vita?”
“Ma non lo vedi cosa sta diventando la mia vita? Cosa c'entra la tua? Guarda, toccati il viso: tu hai le lacrime!
Tu puoi piangere! Io non posso fare nemmeno quello!!!”
“Perché dobbiamo vivere dentro a questa angoscia? Perché? Per quale motivo? Sei viva! Puoi parlare, hai dei
figli bellissimi, hai un marito che ti ama ancora, hai una casa, sei autonoma, esisti! Non vale niente, tutto
questo? Cos'è, per te?”
“La mattina non riesco ad aprire gli occhi, mi devi aspirare il catarro dai polmoni, urlo per il dolore quando
vado al cesso, ho perso metà dei denti, ho le gambe e le braccia a pezzi, e andrà sempre peggio.. e non
dovrei vivere nell'angoscia? Lo stai dicendo seriamente?”
“Sei viva..”
“Non sento più il gusto del cibo.”
“Sei viva.”
“Non riesco a deglutire. Le dita non le piego più. Faccio fatica a camminare. La tiroide è impazzita.”
“Sei viva!”
“Ho la figa secca da più di due anni. Ti sento che ti fai le seghe al cesso, sai? Dovresti aprire l'acqua del
rubinetto, quando ti masturbi. Per i nostri figli, ma anche per te: deve essere terribilmente umiliante, per un
uomo della tua età, farsi tutte quelle seghe.”
“Non ti riconosco più. Non eri così, una volta.”
“Finalmente hai detto una cosa giusta: una volta non ero affatto così, ero tutta un'altra cosa. Ero viva.”
“Sei viva.”
“Tu sei vivo. Io, sono carne marcia che cammina.”
Quella sera avrebbero avuto ospiti ed era un sacco di tempo che non succedeva, talmente tanto tempo che
faceva quasi fatica a ricordare l'ultima serata passata con degli amici - era stata tanto tempo fa, certo, forse
il giorno prima di andare dal dottore per la sentenza, come lei la chiamava, la conferma che era affetta dalla
Sindrome di Sjorgen, qualcosa che non aveva neanche mai sentito nominare, nella sua vita, nella sua vita di
prima, quella vera, quella con la saliva, e le lacrime, e il gusto, i denti, prima di quel rumore rabbioso che
sentiva dentro, come di sassi che si scontrano tra loro – e questa sera ospiti a cena, dunque, e non sapeva
neppure per quale ragione avesse detto di sì, o se avesse davvero detto di sì, perché di sicuro c'entrava suo
marito, ma c'era anche la sensazione che non poteva dire sempre di no, fino in fondo, oppure era colpa
dell'aria profumata di marzo, così come la ricordava, prima che sparissero anche gli odori, oppure era colpa
delle giornate che si allungavano, dell'ora legale - e chissà cos'era quella sensazione che assomigliava al
ricordo della serenità, un ricordo remoto, confuso, al quale non aveva più avuto il coraggio di avvicinarsi – e
quindi una cena da preparare, con tutte le difficoltà che questo comportava, cioè l'uso delle dita doloranti
per maneggiare le posate, l'impossibilità di assaggiare o annusare il cibo, e il ritorno della rabbia per quello
che non aveva più e per il dolore deformante che l'aspettava ancora, un assaggio di morte, a rate - i petti di
pollo erano distesi sul tagliere, nella loro nudità mortale ed immobile, pronti per essere fatti a fettine - e
proprio mentre la lama affondava nella carne di quei piccoli cadaveri (i tessuti connettivi cedevano al gelo del
coltello, uno dopo l'altro) e il sole entrava di sghembo dalla finestra dietro di lei, illuminando il legno rossiccio
del tavolo (quello che aveva ereditato dai propri nonni), lambendo il bordo del vaso di vetro pieno di fiori
quasi appassiti, in quel momento vide, finalmente vide, che quella carne che faceva a fette non era diversa
dalla sua – un ammasso di cellule tra loro connesse, dove il senso era qualcosa che solo lei poteva attribuire
– e come in una dolorosa, improvvisa, esposizione al mondo, comprese, nel fosco chiarore della luce del
tramonto, confusa da una rabbia rumorosa in perenne lotta contro il ricordo di una luce più forte e più vera,
che quella roba liscia e rosa era la vita, e che la vita - la Vita! - non era nient'altro che quella roba rosa e
liscia e appiccicosa – materiale a rapido deperimento, fettine da mangiare a cena con gli amici: qualcosa che
se aspetti troppo ti viene da vomitare solo a sentirne l'odore, se avesse potuto ancora sentirlo – e che la
morte non è scura e nera e terribile ma è un coltello che silenzioso ed implacabile trasforma la vita di un
pollo in cubetti; per cena. E mentre sentiva sgorgare le lacrime dai suoi occhi trasformati in fontane piene di
luce, come in un sogno miracoloso, e le sue guance venivano bagnate da fiumi impetuosi – dal ricordo
dell'acqua, dal fuoco della loro assenza – vide, con un occhio che non aveva mai avuto, e quindi tanto più
vero, che il dolore, la gioia e la passione, le giornate e l'amore, il domani, i ricordi, la speranza e le paure –
che la sua vita, quella che negava, la stessa alla quale era aggrappata con ogni fibra del suo corpo,
disperatamente, inutilmente, quotidianamente, ogni sera e ogni mattina, come un'inviolabile prescrizione
medica - è solo qualcosa che sembrava a lei. E niente, nient'altro che questo.
La malattia è una parte di me, non me!!! Sono una ragazza special edition!!!
Spocchiosa saputella secchiona. E orgogliosa di esserlo!
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