Un racconto di Paola(Saturnia67): La bestia
Inviato: 03/08/2009, 11:36
LA BESTIA
Attraverso la strada di corsa mentre con una mano cerco di mettere in ordine i capelli arruffati dal vento. Mi specchio a volo in una vetrina e poi fuggo via. Per strada si formano mulinelli e alcuni fogli di giornale terminano la loro vorticosa corsa contro le mie gambe, che io invece per camminare punto con forza contro l’asfalto.
Il vento mi spinge, quasi mi strattona, dopo pochi passi mi accorgo con sollievo che sono ormai giunta a destinazione. Afferro l’enorme porta di legno del bar, ma il vento non cede, ho quasi l’impressione che voglia impedirmi di entrare. Spingo forte la porta e scivolo dentro. La porta si chiude con uno scatto alle mie spalle mentre fuori il vento furioso urla e sembra che cento mani invisibili scuotano con rabbia le vetrate colorate.
Mi guardo intorno. Come sempre a quell’ora la sala è piena. Tra le teste ondeggianti scorgo quelle delle ragazze. Sono sedute ad un tavolo e hanno già ordinato da bere. Noto con piacere che non hanno dimenticato di tenere libera una sedia per me. Una di loro alza la mano e mi fa un cenno ed io allora mi libero della giacca e avanzo spedita creandomi un varco tra i tavoli e le sedie. Mentre cammino sento che il brusio cresce e finalmente copre il cupo lamento del vento.
Quando giungo al tavolo gli sguardi sono tutti diretti su di me. Le bocche si allungano in sorrisi e poi si aprono, gettando fuori parole taglienti come pezzi di vetro che penetrano dentro e graffiano l’anima. E’ tutto un susseguirsi di allusioni e ammiccamenti. Le guardo disorientata, sperando di non dovermi pentire per aver scelto di pranzare con loro. Qualcuna si morde perfino il labbro per l’impazienza ma io continuo a non capire il motivo della loro curiosità, finché Virginia sporgendo il busto in avanti e arrampicandosi quasi sul tavolo non mi investe con la domanda che da giorni assilla tutte.
“Chi era il moretto con cui pranzavi l’altro giorno?”
Per qualche minuto cerco tra i ricordi il viso di un moretto. Poi finalmente capisco e un sorriso amaro attraversa le mie labbra.
Guardo i loro occhi che l’invidia e la curiosità hanno reso piccoli e stretti. Immagino il genere di commenti che fiorirebbero se queste talpe sapessero che il moretto altro non è che il mio medico.
La risposta mi esce dalle labbra come un sospiro.
“E’ un amico. Solo un amico”.
Sento che il mio viso è diventato opaco e triste e questo particolare rafforza la mia piccola bugia.
L’arrivo provvidenziale del cameriere mi libera dalla curiosità morbosa delle mie compagne e l’arrivo delle pietanze fumanti tronca ogni genere di discorso.
Quando usciamo fuori il vento ci investe con la sua voce strisciante, mettendoci in fuga.
Il mio passo è diventato di nuovo pesante. Comincio a zoppicare. Sento le caviglie gonfiarsi e le scarpe che prima erano comode, ora sembrano stringermi le ossa. Incasso la testa fra le spalle, alzo il bavero della giacca e batto in ritirata.
Il lavoro nel pomeriggio procede lentamente sarà perché il tempo è grigio, sarà perché ormai la settimana è finita. Nel prendere un faldone da uno scaffale, il polso della mano sinistra cede.
Un dolore intenso mi annebbi la vista e blocca sul nascere ogni pensiero. Poi quando l’ondata è passata, con il cuore ancora in subbuglio mi accorgo che i fascicoli sono volati sul pavimento e ora aspettano che qualcuno li rimetta al loro posto. Mi sono imposta di non arrabbiarmi, in fondo ai piccoli incidenti come quello ormai ci sono abituata e con un po’ di fortuna forse quello sarà l’ultimo della giornata.
Alle sei sono già fuori, da lontano vedo le altre. Il vento mi fa giungere lo scroscio di una risata, riconosco la voce è quella di Silvana, poi i trilli veloci dei telefonini che si susseguono senza sosta, annunciando i messaggi che si incrociano nell’etere. I loro visi sono lucidi e tirati, pronte per la serata. Mi piacerebbe sapere dei loro programmi, magari conoscere il motivo della loro ilarità, ma le caviglie mi fanno troppo male, mi sembra quasi che siano diventate delicate come di cristallo, sempre sul punto di frantumarsi in mille pezzi. Anche alcune dita cominciano a dolermi, poi c’è il polso, le ginocchia, la spalla, un elenco che si allunga ogni minuto di più. E’ ora che io torni a casa e metta a riposo le mie articolazioni doloranti. Il mio malessere ha di nuovo preso il sopravvento, oscurando la mia voglia di divertirmi, di stare in compagnia.
Dall’autobus che avanza lentamente dietro le auto in fila e che tra poco mi porterà a casa, vedo le mie compagne. Sono tutte in piedi e fremono con i loro preziosi telefonini tra le mani, quasi come se fossero dei potenti amuleti.
E’ gradevole svegliarsi la mattina e rimanere a poltrire tra le lenzuola ancora calde e le morbide pieghe del piumone, mentre, le immagini dell’ultimo sogno si sciolgono nella debole luce del sole invernale. Sono i momenti in cui il passato è ancora impresso nella memoria, mentre il futuro penetra nella mia vita, come i sottili raggi che filtrano dalle persiane ancora abbassate.
Apro gli occhi e cerco con lo sguardo la striscia di cielo chiusa tra i palazzi di cemento. Allungo il braccio e mentre gli occhi sono persi nell’azzurro del mattino, le dita della mano destra scivolano verso il telecomando che ha il potere di diffondere musica per la stanza.
Non riesco a decidere che genere di musica ascoltare. Salto da una stazione all’altra e intanto i pensieri cominciano a mettersi in moto, si inseguono formando un cerchio. Li seguo fingendo di dimenticare l’unico appuntamento della giornata a cui sicuramente non mancherò.
Da quando la malattia è entrata nella mia vita, nulla può reggere il suo confronto. Qualsiasi cosa mi inventi per poterla emarginare, per poterla rigettare nell’inferno dal quale proviene, lei riesce sempre ad avere il sopravvento.
Mi muovo silenziosa, ho paura che da un momento all’altro con un ghigno si riaffacci il mio incubo quotidiano, distruggendo l’illusione che sia sparito per sempre.
Mi concentro su me stessa. Sento il cuore che trema per la paura, il respiro s’interrompe continuamente. Ho paura di sentirla ancora dentro di me.
Provo a ruotare un polso. Cerco di stendere le dita. Non vi sono dubbi, è ancora qui e sembra che dorma.
Prima che avessi avuto l’onore di fare la sua conoscenza, immaginavo la malattia come uno spiacevole incidente che rallenta la nostra marcia. Un mondo estraneo che venendo a collisione con il nostro, lo scuote per un po’, salvo poi abbandonarlo indebolito ma libero.
La prima volta in cui mi accorsi che qualcosa di freddo e di oscuro era entrato nella mia vita, non vi diedi molta importanza, lo giudicai come un fastidioso intralcio e nient’altro.
Quando la mia mente accettò l’idea che ero malata, la bestia, ormai, era indissolubilmente legata a me.
In pochi giorni le dita delle mani e dei piedi si chiusero, il mio corpo si piegò su se stesso, come a difendersi da un nemico esterno. Ogni movimento, anche piccolo, mi causava dolore: dolori forti e intensi, capaci di spazzare via, in un sol colpo, ogni sorta di pensiero e che quando finalmente scemavano, si lasciavano alle spalle una scia fatta di paura e sudore.
Non potendo far nulla me ne stavo ferma a guardare il soffitto della stanza, sperando che quel brutto incubo passasse presto.
Provavo a leggere, ma le dita mi facevano così male da non riuscire a voltare le pagine. Per la prima volta nella mia vita ho sentito sulla pelle il peso di un libro.
Era duro accettare l’idea di non poter condurre la vita di sempre, di non poter più fare da sola anche le azioni più semplici. A trent’anni mi sembrava di essere tornata di nuovo bambina, con mia madre che mi seguiva come un’ombra. Per alzarmi dal letto e mettermi finalmente in piedi dovevo fare diversi tentativi prima di riuscirci. Ero così piena di rabbia che a volta le lacrime mi stringevano la gola, senza che però io riuscissi a liberarmene.
Non volevo che il dolore distruggesse i miei sforzi e così decisi, dopo un breve periodo di riposo, di continuare ad andare a lavorare. Non ho mai amato molto il mio lavoro ma, da quel momento, ho cominciato a lottare come una leonessa per non perderlo: fingere di fronte agli altri che non era successo nulla.
La mia battaglia cominciava all’alba e continuava per tutta la giornata, terminando solo di sera quando tornavo a casa, dove finalmente mettevo a riposo il mio corpo, provato dai continui sforzi.
Decisa a combattere contro ogni ostacolo, continuavo a prendere l’autobus rifiutando di farmi accompagnare dai miei, per non gravare maggiormente su di loro. Dovevo percorrere solo pochi metri per raggiungere la fermata e potermi finalmente sedere, eppure quel tragitto mi sembrava interminabile. L’aria fresca del mattino mi pizzicava il viso, ricordandomi che non dovevo cedere. Camminando, divoravo con la mente lo spazio da percorrere, mentre, in realtà i miei passi avanzavano di poco e la strada sembrava diventare ogni giorno sempre più lunga. Io che mi muovevo sempre fretta, ero costretta a rallentare. Avevo l’impressione che il tempo e lo spazio si fossero dilatati.
Ai giorni delle scoperte, seguirono quelli della conoscenza. Mi misi alla ricerca di uno specialista perché mi spiegasse cosa stesse accadendo al mio corpo. Solo molto tempo dopo, quando ormai le novità si erano esaurite e la mia frenetica ricerca della guarigione si era arrestata, solo allora ho conosciuto la bestia.
Lontana dal rumore delle chiacchiere e dalla presenza rassicurante del mio medico, ero rimasta sola con lei. Se pure avessi voluto ignorarla, la sua presenza era così ingombrante, che non avrei potuto evitarla. Così cominciammo ad affrontarci come in un duello, solo che lei sapeva bene come combattere, mentre io annaspavo nel buio.
Ero incapace di darle un nome, di darle un volto. Riuscivo a sentirla dentro di me eppure mi sfuggiva continuamente. Ogni volta che credevo di vederla ferma in un punto e tentavo di afferrarla, lei era già sparita.
Percorreva il mio corpo in lungo ed in largo. Lo studiava come se fosse stato il suo terreno di caccia, lo perlustrava come un soldato che si inoltra nel territorio nemico. Ed ogni volta che s’impadroniva di un pezzo del mio corpo, mi faceva così male da lasciarmi il segno. E i suoi vessilli innalzati servivano a mostrarmi quanto era grande la sua forza.
A volte sembrava che si fosse placata e forse era anche peggio. Se ne stava acquattata in silenzio, come una vipera nascosta all’ombra di un sasso, in modo che io non riuscissi a localizzare dove fosse e cosa stesse facendo e ovviamente non potevo immaginare da che lato avrebbe ripreso ad attaccarmi.
Una volta guardandomi allo specchio, desiderai vedere le mie mani lunghe e affusolate, le sollevai per osservarle meglio, ma al loro posto vidi delle dita ricurve e nodose.
Non riesco ancora a credere cosa sia stata capace di fare contro la mia volontà, e come se avesse ordito un ammutinamento. Ha aizzato il mio esercito più fedele contro di me. Ha fomentato una rivolta all’interno e contro il mio corpo.
A dispetto di tutto quello che ho dovuto sopportare, non mi sono mai rassegnata.
Ora quando sento che sghignazza mentre si diverte a curiosare, insinuandosi nei meandri e nelle cavità, la lascio fare. Fingo di ignorarla, mentre in sordina preparo la mia difesa.
Per difendermi, ho accettato di assumere dei farmaci nocivi non solo per lei ma per tutto il mio organismo. Ogni giorno bevo poche gocce di veleno affinché poco alla volta la bestia s’indebolisca e in fine muoia.
Immagino il veleno, iniettato sotto la mia pelle o spinto attraverso la bocca, penetrare attraverso i tessuti e lei che si ferma a guardarlo con la testa alzata con aria di sfida e un sorriso beffardo stampato sul muso. Fino a quando non vede il suo nemico, che corre a cercarla attraverso il mio sangue, e allora impazzisce. Scappa, si dimena, sbattendo la sua coda contro ogni cosa che trova sul suo cammino. Il veleno la raggiunge, e come una belva ferita si contorce sbraitando, azzannando per il dolore qualsiasi organo abbia a tiro. Inferocita, incita ancora di più i miei anticorpi, costringendoli a colpire ancora più duro. Fino a che indebolita dall’azione del veleno ma per nulla vinta, si rintana, aspettando che il nemico esaurisca tutte le sue armi.
Ora nei momenti di tregua, assaporo di nuovo la libertà, concedendomi brevi passeggiate o altre piccole soddisfazioni. Sono consapevole che la bestia, subdola, me lo concede perché dopo l’ultimo sforzo le cadrò tra le braccia, cosicché potrà stringermi ancora più facilmente tra le sue spire infernali.
Guardo i fasci di luce che, dritti come spade, attraversano la persiana, irrompendo nella mia stanza. Sorrido pensando alla bestia che non potrà mai capire che, malgrado lei, i raggi del sole continuano a illuminare la mia vita, strappando un altro giorno al buio del dolore.
Mi preparo per uscire. Scelgo con cura gli abiti: il tailleur grigio, la camicia rossa che mi piace tanto, le scarpe, la borsa e tutto il resto. Osservo compiaciuta la mia immagine riflessa nello specchio ed esco.
Sono le otto meno un quarto e le altre sono già all’interno del bar dove c’incontriamo ogni mattina per la colazione. Quando arrivo fanno a gara per raccontarmi come hanno trascorso il fine settimana e io le ascolto incuriosita.
Allungo il braccio per prendere la tazzina fumante che aspetta sul banco, ma Silvana afferra la mia mano e la osserva attentamente.
Io tremo. Ho il terrore che scopra tutto. Ma lei con un sorriso mi dice che ho delle belle mani, poi indispettita mi chiede la marca dello smalto.
Tiro un sospiro di sollievo, invento una marca e poi rido forte, lasciando a bocca aperta Silvana che ora crede che io sia diventata matta.
Attraverso la strada di corsa mentre con una mano cerco di mettere in ordine i capelli arruffati dal vento. Mi specchio a volo in una vetrina e poi fuggo via. Per strada si formano mulinelli e alcuni fogli di giornale terminano la loro vorticosa corsa contro le mie gambe, che io invece per camminare punto con forza contro l’asfalto.
Il vento mi spinge, quasi mi strattona, dopo pochi passi mi accorgo con sollievo che sono ormai giunta a destinazione. Afferro l’enorme porta di legno del bar, ma il vento non cede, ho quasi l’impressione che voglia impedirmi di entrare. Spingo forte la porta e scivolo dentro. La porta si chiude con uno scatto alle mie spalle mentre fuori il vento furioso urla e sembra che cento mani invisibili scuotano con rabbia le vetrate colorate.
Mi guardo intorno. Come sempre a quell’ora la sala è piena. Tra le teste ondeggianti scorgo quelle delle ragazze. Sono sedute ad un tavolo e hanno già ordinato da bere. Noto con piacere che non hanno dimenticato di tenere libera una sedia per me. Una di loro alza la mano e mi fa un cenno ed io allora mi libero della giacca e avanzo spedita creandomi un varco tra i tavoli e le sedie. Mentre cammino sento che il brusio cresce e finalmente copre il cupo lamento del vento.
Quando giungo al tavolo gli sguardi sono tutti diretti su di me. Le bocche si allungano in sorrisi e poi si aprono, gettando fuori parole taglienti come pezzi di vetro che penetrano dentro e graffiano l’anima. E’ tutto un susseguirsi di allusioni e ammiccamenti. Le guardo disorientata, sperando di non dovermi pentire per aver scelto di pranzare con loro. Qualcuna si morde perfino il labbro per l’impazienza ma io continuo a non capire il motivo della loro curiosità, finché Virginia sporgendo il busto in avanti e arrampicandosi quasi sul tavolo non mi investe con la domanda che da giorni assilla tutte.
“Chi era il moretto con cui pranzavi l’altro giorno?”
Per qualche minuto cerco tra i ricordi il viso di un moretto. Poi finalmente capisco e un sorriso amaro attraversa le mie labbra.
Guardo i loro occhi che l’invidia e la curiosità hanno reso piccoli e stretti. Immagino il genere di commenti che fiorirebbero se queste talpe sapessero che il moretto altro non è che il mio medico.
La risposta mi esce dalle labbra come un sospiro.
“E’ un amico. Solo un amico”.
Sento che il mio viso è diventato opaco e triste e questo particolare rafforza la mia piccola bugia.
L’arrivo provvidenziale del cameriere mi libera dalla curiosità morbosa delle mie compagne e l’arrivo delle pietanze fumanti tronca ogni genere di discorso.
Quando usciamo fuori il vento ci investe con la sua voce strisciante, mettendoci in fuga.
Il mio passo è diventato di nuovo pesante. Comincio a zoppicare. Sento le caviglie gonfiarsi e le scarpe che prima erano comode, ora sembrano stringermi le ossa. Incasso la testa fra le spalle, alzo il bavero della giacca e batto in ritirata.
Il lavoro nel pomeriggio procede lentamente sarà perché il tempo è grigio, sarà perché ormai la settimana è finita. Nel prendere un faldone da uno scaffale, il polso della mano sinistra cede.
Un dolore intenso mi annebbi la vista e blocca sul nascere ogni pensiero. Poi quando l’ondata è passata, con il cuore ancora in subbuglio mi accorgo che i fascicoli sono volati sul pavimento e ora aspettano che qualcuno li rimetta al loro posto. Mi sono imposta di non arrabbiarmi, in fondo ai piccoli incidenti come quello ormai ci sono abituata e con un po’ di fortuna forse quello sarà l’ultimo della giornata.
Alle sei sono già fuori, da lontano vedo le altre. Il vento mi fa giungere lo scroscio di una risata, riconosco la voce è quella di Silvana, poi i trilli veloci dei telefonini che si susseguono senza sosta, annunciando i messaggi che si incrociano nell’etere. I loro visi sono lucidi e tirati, pronte per la serata. Mi piacerebbe sapere dei loro programmi, magari conoscere il motivo della loro ilarità, ma le caviglie mi fanno troppo male, mi sembra quasi che siano diventate delicate come di cristallo, sempre sul punto di frantumarsi in mille pezzi. Anche alcune dita cominciano a dolermi, poi c’è il polso, le ginocchia, la spalla, un elenco che si allunga ogni minuto di più. E’ ora che io torni a casa e metta a riposo le mie articolazioni doloranti. Il mio malessere ha di nuovo preso il sopravvento, oscurando la mia voglia di divertirmi, di stare in compagnia.
Dall’autobus che avanza lentamente dietro le auto in fila e che tra poco mi porterà a casa, vedo le mie compagne. Sono tutte in piedi e fremono con i loro preziosi telefonini tra le mani, quasi come se fossero dei potenti amuleti.
E’ gradevole svegliarsi la mattina e rimanere a poltrire tra le lenzuola ancora calde e le morbide pieghe del piumone, mentre, le immagini dell’ultimo sogno si sciolgono nella debole luce del sole invernale. Sono i momenti in cui il passato è ancora impresso nella memoria, mentre il futuro penetra nella mia vita, come i sottili raggi che filtrano dalle persiane ancora abbassate.
Apro gli occhi e cerco con lo sguardo la striscia di cielo chiusa tra i palazzi di cemento. Allungo il braccio e mentre gli occhi sono persi nell’azzurro del mattino, le dita della mano destra scivolano verso il telecomando che ha il potere di diffondere musica per la stanza.
Non riesco a decidere che genere di musica ascoltare. Salto da una stazione all’altra e intanto i pensieri cominciano a mettersi in moto, si inseguono formando un cerchio. Li seguo fingendo di dimenticare l’unico appuntamento della giornata a cui sicuramente non mancherò.
Da quando la malattia è entrata nella mia vita, nulla può reggere il suo confronto. Qualsiasi cosa mi inventi per poterla emarginare, per poterla rigettare nell’inferno dal quale proviene, lei riesce sempre ad avere il sopravvento.
Mi muovo silenziosa, ho paura che da un momento all’altro con un ghigno si riaffacci il mio incubo quotidiano, distruggendo l’illusione che sia sparito per sempre.
Mi concentro su me stessa. Sento il cuore che trema per la paura, il respiro s’interrompe continuamente. Ho paura di sentirla ancora dentro di me.
Provo a ruotare un polso. Cerco di stendere le dita. Non vi sono dubbi, è ancora qui e sembra che dorma.
Prima che avessi avuto l’onore di fare la sua conoscenza, immaginavo la malattia come uno spiacevole incidente che rallenta la nostra marcia. Un mondo estraneo che venendo a collisione con il nostro, lo scuote per un po’, salvo poi abbandonarlo indebolito ma libero.
La prima volta in cui mi accorsi che qualcosa di freddo e di oscuro era entrato nella mia vita, non vi diedi molta importanza, lo giudicai come un fastidioso intralcio e nient’altro.
Quando la mia mente accettò l’idea che ero malata, la bestia, ormai, era indissolubilmente legata a me.
In pochi giorni le dita delle mani e dei piedi si chiusero, il mio corpo si piegò su se stesso, come a difendersi da un nemico esterno. Ogni movimento, anche piccolo, mi causava dolore: dolori forti e intensi, capaci di spazzare via, in un sol colpo, ogni sorta di pensiero e che quando finalmente scemavano, si lasciavano alle spalle una scia fatta di paura e sudore.
Non potendo far nulla me ne stavo ferma a guardare il soffitto della stanza, sperando che quel brutto incubo passasse presto.
Provavo a leggere, ma le dita mi facevano così male da non riuscire a voltare le pagine. Per la prima volta nella mia vita ho sentito sulla pelle il peso di un libro.
Era duro accettare l’idea di non poter condurre la vita di sempre, di non poter più fare da sola anche le azioni più semplici. A trent’anni mi sembrava di essere tornata di nuovo bambina, con mia madre che mi seguiva come un’ombra. Per alzarmi dal letto e mettermi finalmente in piedi dovevo fare diversi tentativi prima di riuscirci. Ero così piena di rabbia che a volta le lacrime mi stringevano la gola, senza che però io riuscissi a liberarmene.
Non volevo che il dolore distruggesse i miei sforzi e così decisi, dopo un breve periodo di riposo, di continuare ad andare a lavorare. Non ho mai amato molto il mio lavoro ma, da quel momento, ho cominciato a lottare come una leonessa per non perderlo: fingere di fronte agli altri che non era successo nulla.
La mia battaglia cominciava all’alba e continuava per tutta la giornata, terminando solo di sera quando tornavo a casa, dove finalmente mettevo a riposo il mio corpo, provato dai continui sforzi.
Decisa a combattere contro ogni ostacolo, continuavo a prendere l’autobus rifiutando di farmi accompagnare dai miei, per non gravare maggiormente su di loro. Dovevo percorrere solo pochi metri per raggiungere la fermata e potermi finalmente sedere, eppure quel tragitto mi sembrava interminabile. L’aria fresca del mattino mi pizzicava il viso, ricordandomi che non dovevo cedere. Camminando, divoravo con la mente lo spazio da percorrere, mentre, in realtà i miei passi avanzavano di poco e la strada sembrava diventare ogni giorno sempre più lunga. Io che mi muovevo sempre fretta, ero costretta a rallentare. Avevo l’impressione che il tempo e lo spazio si fossero dilatati.
Ai giorni delle scoperte, seguirono quelli della conoscenza. Mi misi alla ricerca di uno specialista perché mi spiegasse cosa stesse accadendo al mio corpo. Solo molto tempo dopo, quando ormai le novità si erano esaurite e la mia frenetica ricerca della guarigione si era arrestata, solo allora ho conosciuto la bestia.
Lontana dal rumore delle chiacchiere e dalla presenza rassicurante del mio medico, ero rimasta sola con lei. Se pure avessi voluto ignorarla, la sua presenza era così ingombrante, che non avrei potuto evitarla. Così cominciammo ad affrontarci come in un duello, solo che lei sapeva bene come combattere, mentre io annaspavo nel buio.
Ero incapace di darle un nome, di darle un volto. Riuscivo a sentirla dentro di me eppure mi sfuggiva continuamente. Ogni volta che credevo di vederla ferma in un punto e tentavo di afferrarla, lei era già sparita.
Percorreva il mio corpo in lungo ed in largo. Lo studiava come se fosse stato il suo terreno di caccia, lo perlustrava come un soldato che si inoltra nel territorio nemico. Ed ogni volta che s’impadroniva di un pezzo del mio corpo, mi faceva così male da lasciarmi il segno. E i suoi vessilli innalzati servivano a mostrarmi quanto era grande la sua forza.
A volte sembrava che si fosse placata e forse era anche peggio. Se ne stava acquattata in silenzio, come una vipera nascosta all’ombra di un sasso, in modo che io non riuscissi a localizzare dove fosse e cosa stesse facendo e ovviamente non potevo immaginare da che lato avrebbe ripreso ad attaccarmi.
Una volta guardandomi allo specchio, desiderai vedere le mie mani lunghe e affusolate, le sollevai per osservarle meglio, ma al loro posto vidi delle dita ricurve e nodose.
Non riesco ancora a credere cosa sia stata capace di fare contro la mia volontà, e come se avesse ordito un ammutinamento. Ha aizzato il mio esercito più fedele contro di me. Ha fomentato una rivolta all’interno e contro il mio corpo.
A dispetto di tutto quello che ho dovuto sopportare, non mi sono mai rassegnata.
Ora quando sento che sghignazza mentre si diverte a curiosare, insinuandosi nei meandri e nelle cavità, la lascio fare. Fingo di ignorarla, mentre in sordina preparo la mia difesa.
Per difendermi, ho accettato di assumere dei farmaci nocivi non solo per lei ma per tutto il mio organismo. Ogni giorno bevo poche gocce di veleno affinché poco alla volta la bestia s’indebolisca e in fine muoia.
Immagino il veleno, iniettato sotto la mia pelle o spinto attraverso la bocca, penetrare attraverso i tessuti e lei che si ferma a guardarlo con la testa alzata con aria di sfida e un sorriso beffardo stampato sul muso. Fino a quando non vede il suo nemico, che corre a cercarla attraverso il mio sangue, e allora impazzisce. Scappa, si dimena, sbattendo la sua coda contro ogni cosa che trova sul suo cammino. Il veleno la raggiunge, e come una belva ferita si contorce sbraitando, azzannando per il dolore qualsiasi organo abbia a tiro. Inferocita, incita ancora di più i miei anticorpi, costringendoli a colpire ancora più duro. Fino a che indebolita dall’azione del veleno ma per nulla vinta, si rintana, aspettando che il nemico esaurisca tutte le sue armi.
Ora nei momenti di tregua, assaporo di nuovo la libertà, concedendomi brevi passeggiate o altre piccole soddisfazioni. Sono consapevole che la bestia, subdola, me lo concede perché dopo l’ultimo sforzo le cadrò tra le braccia, cosicché potrà stringermi ancora più facilmente tra le sue spire infernali.
Guardo i fasci di luce che, dritti come spade, attraversano la persiana, irrompendo nella mia stanza. Sorrido pensando alla bestia che non potrà mai capire che, malgrado lei, i raggi del sole continuano a illuminare la mia vita, strappando un altro giorno al buio del dolore.
Mi preparo per uscire. Scelgo con cura gli abiti: il tailleur grigio, la camicia rossa che mi piace tanto, le scarpe, la borsa e tutto il resto. Osservo compiaciuta la mia immagine riflessa nello specchio ed esco.
Sono le otto meno un quarto e le altre sono già all’interno del bar dove c’incontriamo ogni mattina per la colazione. Quando arrivo fanno a gara per raccontarmi come hanno trascorso il fine settimana e io le ascolto incuriosita.
Allungo il braccio per prendere la tazzina fumante che aspetta sul banco, ma Silvana afferra la mia mano e la osserva attentamente.
Io tremo. Ho il terrore che scopra tutto. Ma lei con un sorriso mi dice che ho delle belle mani, poi indispettita mi chiede la marca dello smalto.
Tiro un sospiro di sollievo, invento una marca e poi rido forte, lasciando a bocca aperta Silvana che ora crede che io sia diventata matta.