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CATENE CHE RENDONO INVALIDI I MALATI REUMATICI

Inviato: 04/10/2015, 9:40
da lorichi
Le «catene» che rendono invalidi i malati reumatici
Cinque nodi che peggiorano la vita dei pazienti: il dolore percepito, i tempi delle visite, il ritardo nella diagnosi, la difficoltà a ottenere le esenzioni
di Mario Pappagallo

I farmaci funzionano ma chi convive con una malattia reumatica non riesce a liberarsi di alcune catene che comunque lo rendono invalido. Quali? Uno studio, il “Progetto Reuma Veneto”, ha individuato le catene analizzando 1.157 pazienti: il dolore percepito che non si riesce a rendere sopportabile, i tempi a disposizione del medico per la prima visita e i controlli successivi (ci vorrebbe almeno un terzo di tempo in più rispetto all’attuale), il ritardo della diagnosi che può toccare anche i due anni. Catene che rendono invalidi, nonostante la malattia sia sotto controllo. E qui subentra l’ennesimo ostacolo (beffa): la difficoltà a ottenere il riconoscimento per l’invalidità da malattia reumatica.
Il progetto
Emerge una situazione che, oltre a non soddisfare pazienti e medici, incide in modo consistente sui costi della sanità. Il dolore, infatti, peggiora la qualità di vita dei pazienti reumatici nonostante l’efficacia delle cure. A soffrirne di più sono i malati di fibromialgia e di osteoartrosi lombare, senza contare che uno su tre di tutti i pazienti deve far i conti con almeno due malattie reumatiche. Lo studio “Progetto Reuma Veneto” è stato realizzato dai medici reumatologi in collaborazione con l’Aisf (Associazione italiana sindrome fibromialgica), l’Amarv (Associazione dei malati reumatici del Veneto), l’Anmar (Associazione nazionale malati reumatici Onlus). I suoi risultati saranno oggetto di confronto tra specialisti italiani e stranieri in occasione del Congresso europeo di reumatologia Eular, in programma a Roma dal 10 al 13 giugno. E sarà analizzato anche come primo esempio della collaborazione tra diverse associazioni pazienti all’interno del progetto internazionale “Malati reumatici in rete”.
Il problema del dolore
Tanti i pregiudizi sulle malattie reumatiche: inevitabili, di poco conto e quindi non degne di eccessiva cura, tipiche degli anziani. Pregiudizi da rimuovere al più presto. In realtà delle tante patologie reumatiche «solo 3-4 appartengono alla terza età e difficilmente portano a morte, anche se limitano fortemente la libertà di movimento e l’autonomia delle persone anziane. Tutte le altre appartengono a fasce di età precedenti, soprattutto l’età giovane adulta, prevalendo nel sesso femminile, in alcuni casi quasi si trattassero di patologie di genere. E proprio queste comportano disabilità, ricoveri e lunghissime cure, alti costi sociali e, in alcuni casi, la morte», sottolinea Stefano Stisi, presidente dei reumatologi ospedalieri (Croi). L’indagine su 1.157 pazienti ha dimostrato, tra gli altri dati, come il dolore percepito, una delle conseguenze della malattia con maggior impatto sulla qualità di vita, sia significativo. «Se si può dire che, grazie a farmaci sempre più efficaci e alla buona assistenza sanitaria, la malattia reumatica è sotto controllo, lo stesso non si può dire per il dolore – commenta Gianniantonio Cassisi, coordinatore dello studio e segretario del Croi -. Quando visitiamo i pazienti per la prima volta hanno un’intensità media di dolore intorno a 50 su una scala che arriva a 100. Tuttavia l’intervento medico la riduce poco, di meno del 20%, per cui si resta sempre sopra a 40. Significa che noi medici curiamo bene i nostri malati ma loro continuano a provare dolore. È un aspetto da risolvere. I dati raccolti riguardano la Regione Veneto, ma rispecchiano la situazione nazionale e potrebbero contribuire a una corretta programmazione dei servizi, nonché a una più efficace riorganizzazione delle reti reumatologiche italiane».
Altre «catene invalidanti»
Per Renato Giannelli, presidente Anmar «dobbiamo chiedere a medici e a istituzioni, anche in risposta alla legge contro il dolore, di essere più sensibili a questo problema. Il Congresso di Roma sarà l’occasione per fare tesoro delle nuove conoscenze, al fine di identificare obiettivi comuni e strategie condivise per il miglioramento della qualità di vita dei malati reumatici». Dall’indagine emergono anche altri dati che incidono sulla qualità di vita dei pazienti. La celerità della diagnosi è elemento indispensabile, in quanto permette di intraprendere subito le cure e questo è essenziale per porre sotto controllo la malattia. Anche in Veneto, Regione tra quelle modello per la sanità, pesano ritardi nelle diagnosi e lunghe liste d’attesa: sono stati persi in media ben 20 mesi prima di riconoscere la malattia, inoltre il ritardo medio per la prima visita è di 2 mesi (addirittura fino a 4 in alcuni centri), e di altri 60 giorni viene posticipata la data prevista per i controlli. Un altro problema è rappresentato dalla necessità da parte dei medici di un maggior tempo da dedicare alle visite. Lo studio ha dimostrato che, in 23 centri, i reumatologi hanno bisogno di 33 minuti in media per la prima visita, e non possono avere meno di 25 minuti per i controlli. In realtà i tempi concessi sono 20 minuti per la prima visita e 15 per i controlli. «Tempi che vanno a chiaro discapito della salute del paziente e a discapito della prestazione del medico, che rischia di sbagliare la diagnosi o la terapia», sottolinea Cassisi. Il reumatologo, peraltro, si trova a dover gestire oltre 120 malattie diverse. Le patologie reumatologiche più presenti nei pazienti partecipanti allo studio, per esempio, sono state artriti e spondiloartriti (nel 53%), artrosi (38%), reumatismi extrarticolari (16%), connettiviti sistemiche (12%), osteoporosi (12%).
Infine, il riconoscimento dell’invalidità per malattia reumatica. Solo il 14% dei malati ne è titolare: un valore molto basso. E anche il dolore che persiste alle cure è di per se invalidante. «Le commissioni per l’invalidità civile devono aumentare la loro attenzione nei confronti delle malattie reumatiche, poiché non tutte hanno adesso accesso all’esenzione, mentre bisognerebbe valutare l’estensione di tale diritto», conclude Giannelli.
3 giugno 2015 | 17:20
DA "CORRIERE DELLA SERA SALUTE"