IO PER LUI ERO LUCA…..MA NEI SUOI OCCHI VEDEVO ME

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Lulù
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IO PER LUI ERO LUCA…..MA NEI SUOI OCCHI VEDEVO ME

Messaggio da Lulù »

Cari amici,
il post che segue è lo stesso che ho scritto sul mio blog, ma questa volta ho preferito postarlo anche qua, per avere uno scambio di opinioni su questa triste tematica.
Se vi va mi piacerebbe cosa pensate di queste persone, se avete avuto esperienze in tal senso ecc...
Un dolce abbraccio a tutti!


Immagine


Qual è la forza che permette a un individuo di realizzare un progetto che porterà benefici ad altri individui?
Qual è il meccanismo che innescherà una reazione a catena di atti e fatti che daranno luogo a un reale cambiamento?

Ma soprattutto qual è il sentimento che sarà in grado di far smuovere le montagne, di trasformare una mentalità alimentata per secoli di insensibilità a una di consapevolezza e di portare la luce là dove il buio e le tenebre regnano sovrane?
“LA COMPASSIONE”, l’immedesimarsi nell’altro e fare ad egli ciò che vorremo fosse fatto a noi.
E qui, non parlo in termini puramente spirituali, ma molto, molto concreti e realistici, il termine compassione inteso come un sentimento che al di là del suo significato religioso presiede nei gesti e nei pensieri di chi ha uno spirito di giustizia e di semplice e puro amore per la vita, per gli uomini e per l’uguaglianza di tutti i suoi simili.
Ieri, vi ho segnalato la fiction di rai uno.. ”La città dei matti” e per come vi avevo promesso, oggi sono qui a scrivere un post sull’argomento.
Non intendo affrontarlo narrandovi la storia dello psichiatra in questione ne del lungo percorso e cambiamento che portò all’abolizione dei manicomi, perché suppongo che abbiate visto il film, il quale spiega pressappoco come si arriva a quel cambiamento, e perché chiunque fosse interessato a quel lungo percorso burocratico e politico, può semplicemente soddisfare la propria voglia di sapere attraverso libri e web.
Ciò di cui voglio parlare oggi, sono LORO…..I MATTI!

Quando studiai le tecniche di riabilitazione, la psicologia dei gruppi ecc.., era chiaramente tutta teoria e l’idea di applicare talune metodologie e approcci, sembravano essere ottimi strumenti, tecniche che avrebbero permesso a me come a tanti altri operatori di svolgere un adeguato lavoro, ma….
Fra il dire e il fare, ce ne vuole e tutto ciò che lessi nei libri sicuramente mi aiutò quando ebbi il primo contatto con i pazienti delle strutture sanitarie, ma quello che scopri e che non era contemplato sui testi era un mondo a parte, diverso se pur simile a quello che comunemente vedevo scorrere nella vita quotidiana….solo che là….tutto era “nero su bianco”.
Diagnosi e terapie scritte per…Maria, Antonietta, Giuseppe, Giovanni…….
Uomini e donne, che fino a quel momento prima di conoscerli erano “i degenti delle strutture psichiatriche e delle comunità terapeutiche” citati sui libri e che d’un tratto erano esseri umani proprio come me, dotati di sensibilità e di emozioni forti come la rabbia e il dispiacere, proprio come tutti noi.
Con questo non voglio dire che stavano bene, ma di certo non erano “I MALATI”…in senso dispregiativo.
E’ vero anche che ci sono diversi tipi di patologie e che in base alla gravità della malattia i soggetti sono più o meno aggressivi, ma questa è un’altra storia, così come è un’altra storia il semplice fatto che così come nel mondo dei cosiddetti sani di mente vi sono soggetti più buoni ed altri meno buoni, ma tutti considerati esseri umani, anche in queste strutture si trovano persone di diversa estrazione sociale e con tanti tipi di carattere, buoni e meno buoni.
Il mio primo ingresso in una struttura di questo tipo, seguì dopo lunghi giorni di emozione per avere ricevuto finalmente l’incarico in ospedale, un occasione per mettere a frutto le mie conoscenze e i miei studi, ma altrettanti quesiti e preoccupazioni del tipo…”Sono aggressivi?, Potrò realmente comunicarci?, Capirò le loro reazioni? E soprattutto…potrò davvero aiutarli?”
Lo scoprì quasi subito come quegli esseri “diversi”, erano simili a me, ma molto più sfortunati di me!
Ricordo ancora quel giorno quando entrai quasi in punta di piedi, ma con l’atteggiamento tipico del novello operatore sociale che sa cosa fare, pur non sapendo cosa fare!
Ehehe….è così!
Ci si prende un titolo, crediamo di avere raggiunto una parte del mondo che ad altri non è dato arrivare, ci si crede di avere capito e saputo tutto quello che c’era da sapere su quelle malattie, sulle loro diagnosi e percorsi curativi, ci si ricarica di buon ottimismo e si è convinti di cambiare il mondo, ma quando sei dentro, quando quelle vite non sono più diagnosi e terapie, ma esseri umani che invocano il loro essere riconosciuti come individui solo più sfortunati e che cercano affetto, ecco che si deve rimettere in discussione tutto!
Pensi che la legge Basaglia abbia prodotto bene i suoi frutti, e in realtà, da un punto di vista formale è così….
Nuove strutture, non più ospedale psichiatrico, ma Centri Residenziali uomini e donne, Comunità terapeutiche, Centri di Riabilitazione, Centri Diurni, Case Famiglia ecc…
Ogni struttura con le proprie prerogative, con i propri metodi e soprattutto non più metodi violenti e disumani nel rapporto con i pazienti….niente più elettroschock, niente abusi, niente segregazioni, non ci sono più esseri umani costretti a nuotare fra le proprie urine o a scansare le feci altrui che volavano da un capo all’altro della stanza ecc..
Che dire….abbiamo fatto passi da gigante, eppure…
Eppure senti e vedi che non tutti hanno accettato questa legge, che non ha tutti ha prodotto un reale cambiamento intimo e profondo e me ne accorsi quando fra una comunità e un’altra, fra una struttura e un'altra gli stessi responsabili, reagivano ai progetti di riabilitazione per i pazienti, in modo differente.
Trovai il dirigente che soddisfatto del mio lavoro mi incitava a progettare insieme a lui e agli altri operatori nuove tecniche, ammirando e soddisfacendosi dei piccoli, ma speranzosi risultati che avevamo ottenuto.
Trovai altresì dirigenti che quando presentai la richiesta del materiale per potere lavorare con i degenti, mi fece una sorta di romanzina dicendomi che bastava un foglio e qualche colore, qualche pastello, perché tanto quegli individui sarebbero rimasti quello che erano…”Dei pazzi, dei disadattati ecc..per cui non aveva senso spendere delle risorse per ciò che non produceva frutto”
E’ inutile dirvi che da questo mio pressare affinchè potessi davvero lavorare e non fregarmi lo stipendio offrendo solo la mia presenza e nient’altro diede molto, ma molto fastidio…..
Ma non siamo qui per parlare di me, ma di queste persone che hanno tanto da offrire ad ognuno di noi.
E credetemi non sono solo parole, o un modo poetico per narrare una triste realtà offrendole un primo posto fra le meravigliose manifestazioni che i più deboli e più indifesi sanno donare a chi si sente già arrivato o sano di mente.
Le loro vite segnate da storie terribili e crudeli, da una eccessiva reazione emotiva nell’affrontare le difficoltà della vita, quelli che erano lì sin dalla più tenera età perché lasciati dai genitori che li avevano avuti da relazione extraconiugali…quindi bimbi sani, o nati con qualche piccolo difetto fisico, ma che costituivano per alcuni una insopportabile visione di ciò che avevano prodotto.
Quindi non tutti sono entrati lì perché malati, ma molti lo sono diventati grazie agli elettroschock o alla impossibile coabitazione fra individui sani e malati.
Avete visto il film ieri sera…credetemi non c’è niente di irreale o di idealizzato e esaltato in quelle scene….è sfortunatamente tutto reale, e quello che avete visto è solo una piccola, piccolissima parte di un’esistenza segnata per molti che porta il nome di “peso sociale”.
Ricordo ancora quando attraversando i corridoi dell’ospedale psichiatrico, ( perché è stata chiusa la concezione dell’ospedale psichiatrico, ma non la struttura che adesso è riformata, ma pur sempre esistente) incontrai una piccola donna, alta poco più di 1,20, che parlava ad alta voce e piangeva, poi rideva e poi si fermava a guardare la gente.
Chiesi ad alcune persone che cosa avesse questa donna e mi dissero solo che era lì da quando aveva tre anni………………….
Nella mia mente si accavallarono immagini di una sua possibile esistenza trascorsa dietro quelle mura, in compagnia di gente davvero malata e con carcerieri al posto di operatori e infermieri….Dio, lo ricordo come se fosse ora quel momento, in cui attendevo di entrare dal dirigente sanitario per discutere di alcune questioni legate al mio lavoro, ma dovetti allontanarmi da quel luogo in quando il dolore e la tristezza non mi permettevano nemmeno di pronunciare una sola parola.
Quando cominciai a lavorare con loro e ad ascoltare alcuni dei loro racconti,( non di tutti, perché non tutti avevano il lusso di saper parlare e di esprimersi dopo anni di prigionia e di vita non-vita ) mi persi fra le loro vite, fra le loro speranze, fra le loro piccole conquiste….
Nei loro sguardi c’era la profondità di un mondo a loro ormai lontano, ma vicino e vivo nei ricordi….un mondo in cui nessuno può entrare se non sono loro stessi a prenderti per mano e a condurti….è l’unica cosa che ancora gli appartiene.
Era un mondo nuovo, un mondo che avevo sempre avuto vicino, ma che ritenevo diverso…un mondo che adesso vedevo, un mondo in cui potei entrare!
Si, era un mondo diverso, ma lo avevano reso i “sani di mente” così, perché quella gente, prima di essere rinchiusa la dentro era gente simile a me, gente che avrebbe potuto superare le proprie difficoltà qualora ci fossero state realmente, semplicemente con mezzi diversi, come quelli che oggi dopo tante lotte e affermazioni dei diritti disponiamo.
Mi colpì anche la storia di un uomo che era lì da subito dopo la guerra, dopo che tentò il suicidio per i ricordi di tutta quella violenza generata dal conflitto e da allora sviluppò una patologia che non gli permise di ritornare più alla “normalità”.
E allora ti chiedi in quel preciso momento, cosa avviene nella mente di un individuo quando non riesce a reggere al dolore della società, o come quando Maria ( una donna ospite in comunità) non resse al dolore e alla rabbia di avere perso un figlio e alla separazione successiva con il marito, con la conseguenza che venne rinchiusa in ospedale.
E ti chiedi perché alcuni reagiscono in un modo e altri in un altro, ma soprattutto perché per tanto tempo siano stati costretti a vivere condizioni disumane in nome di un rifiuto della società verso le proprie paure, un po’ come dichiarò proprio Basaglia quando in una conferenza, dopo l’omicidio compiuto da un uomo in libertà vigilata dall’ospedale psichiatrico, uccise la propria moglie.
Egli sosteneva che in quelle strutture, ospedali pschiatrici, orfanotrofi… confiniamo più che la gente, le nostre paure e le nostre incapacità….e mi chiedo io, che altro sarebbe se non questo?
Ancora oggi, nonostante l’affermazione dei diritti degli individui, possiamo vedere e toccare con mano come colui che è “diverso” sia confinato non più nei manicomi, ma di certo allontanato dalla società, vittima ancora una volta di un sistema in cui solo chi ha la fortuna di nascere già potente, con la camicia e con un colore di pelle giusto, potrà non rimanere vittima della sua “malattia” o della sua difficoltà e diversità.
Ho visto ragazze che nel loro fiorire hanno avuto spezzato il gambo della vita, piccole donne che eccessivamente sensibili non sono riuscite a gestire bene la propria vita e sono finite dentro un sistema che adesso le ha già catalogate, e qualora questo avviene, difficilmente si ritorna ad avere una vita normale, perché saranno sempre viste come le “matte”.
Ragazzi ritenuti mentalmente instabili perché la società in cui vive non è riuscita a rispondere al suo disagio e al contempo ne ha amplificato sue difficoltà, ragazzi che non vedranno mai concretizzare una vita semplice ma vera.
Infatti, siamo convinti che tutto sia finito con la chiusura dei manicomi? O che le leggi che tutelano i più deboli possano realmente fare la differenza?
Pensate che la gente abbia capito e accettato l’altro come un individuo meritevole di rispetto e di tutela, un essere che ha semplicemente bisogno di aiuto e non di classificazione e di pietà?
Pensate che oggi, non vengano considerati come degli appestati?
Pensate che le famiglie abbiano sostegno e aiuti davvero concreti e che ci sia una reale accettazione del “malato psichiatrico”?
Oggi, forse più di ieri c’è tanta gente che ha capito, ma ce n’è altrettanta che considera la legge Basaglia un errore e anche quando non lo dice apertamente opera come un essere al di sopra di loro, colui che può ancora trattarli come sottospecie, considerarli come untori e appestati, e sperare in cuor suo che arrivi presto un cambiamento di rotta e si ritorni a pulire questa società dai matti e dai pesi sociali intesi come bisognosi sotto diverse forme.
Forse bisognerebbe chiedersi chi sono veramente i matti.
Quelli che ho conosciuto io erano e sono esseri umani meno fortunati di altri, uomini che per un qualche motivo stanno vivendo una condizione diversa dalla nostra, ma che un tempo….qualunque tempo sia stato, sono stati esseri umani come noi.
Chi si reputa “sano” scagli la prima pietra…..io la mia l’ho l’ho lasciata cadere.
"Occorre compiere fino in fondo il proprio dovere, qualunque sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi, perché è in ciò che sta l'essenza della dignità umana". Giovanni Falcone



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rosaria1956
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Re: IO PER LUI ERO LUCA…..MA NEI SUOI OCCHI VEDEVO ME

Messaggio da rosaria1956 »

="LulùEgli sosteneva che in quelle strutture, ospedali pschiatrici, orfanotrofi… confiniamo più che la gente, le nostre paure e le nostre incapacità….e mi chiedo io, che altro sarebbe se non questo?
Cara Lulù che scritto toccante.
Ho messo in evidenza questa frase perchè la ritengo assolutamente esatta, la società non è all'altezza della situazione quindi molto più facile classificare, etichettare, ghettizzare, isolare, rinchiudere.
E' un argomento estremamente delicato che sinceramente, non so trattare se non dal lato puramente umanistico, la "compassione" citata dall'autore alberga in molti cuori per fortuna ma all'atto pratico non è sempre facile metterla in pratica.
Occorrono dei servizi appositi perchè è indubbio che questi malati hanno il diritto di vedersi risolvere o quanto meno migliorare la propria situazione....nè più nè meno come lo abbiamo noi reumatici...e tutti gli altri malati.
Domenica e ieri sera ho seguito il film, molto bello e toccante, di queste problematiche purtroppo non ne so molto, la decisione di lascire che questi malati avessero una VITA o quanto meno tentassero di averla è stata più che giusta, alora dico:
proviamo a pensare di avere avuto un figlio così sfortunato, lo vorremmo noi abbandonato in un posto come quello descritto dal film?....certamente no, ma le famiglie spesso da sole non ce la fanno, esattamente come non ce la fà una famiglia a supportare un malato terminale oppure un malato allettato, un invalido grave.
La famiglia ha bisogno di aiuto, lo Stato avrebbe il DOVERE di aiutare le famiglie ed a metterle nelle condizioni migliori per poter accudire il proprio congiunto malato, qualunque sia la malattia.
Lulù cara io resto assolutamente sgomenta di fronte a certi problemi che mi sembrano così terribili e grandi da sopportare, un grande rispetto e profonda ammirazione a chi riesce a fare del suo meglio e ad aiutare casi così gravi, profonda ammirazione e rispetto per le famiglie che riescono ad andare avanti malgrado carichi tanto pesanti gravino sulle proprie spalle.
Gli amici sono quelle rare persone che ti chiedono "come stai" e poi ascoltano persino la risposta (anonimo)

Amare vuol dire sentire male a un braccio che non è il tuo (Paolo Zardi)

I nostri compleanni sono piume sulle ali del vento (Jean Paul Richter)

"Chi perde davvero non è chi arriva ultimo nella gara. Chi perde davvero è chi resta seduto a guardare, senza provare nemmeno a correre (Oscar Pistorius)__________________________________________________________________________________________


La Compagnia Instabile dei ReumAmici, ovvero, gli acciaccati felici, e la commedia brillante: A noi la malattia ci fà un baffo
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LA RICERCA NON SI FERMA, QUELLO CHE NON E' POSSIBILE OGGI LO SARA' DOMANI COME QUELLO CHE ERA IMPOSSIBILE IERI E' STATO POSSIBILE OGGI (rosaria1956) Immagine


I MIEI ACCIACCHI: Artrite reumatoide a esordio infantile ma ipotizzata solo negli anni '80. Diagnosticata con certezza ad inizio anni '90. Nel 2000 si è associata una fibromialgia severa, dal 2002 ulcerazioni al colon, tirodite autoimmune con ipotiroidismo, fibrosi polmonare, dal 2006 glaucoma da cortisone ad entrambi gli occhi cui si è recentemente aggiunta una congiuntivite sicca, new entry: vitiligine da giugno 2012! Sono in terapia con FANS, steroidi e farmaci biotecnologici...e adesso in compagnia anche di un adenocarcinoma localmente avanzato stadio IIIB al polmone destro...ma ci do dentro :-)



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lorichi
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Re: IO PER LUI ERO LUCA…..MA NEI SUOI OCCHI VEDEVO ME

Messaggio da lorichi »

MI SONO POSTA TANTE VOLTE LA DOMANDA SE SIA STATO GIUSTO O NO CHIUDERE I MANICOMI E LA RISPOSTA E' SEMPRE TROPPO ARTICOLATA PER ESSERE UNA RISPOSTA.
COME SEMPRE IN ITALIA LE COSE SI FANNO A META'. L'IDEA PENSO FOSSE BUONA PERCHE' NON TUTTI QUELLI CHE FINIVANO IN MANICOMIO ERANO VERAMENTE "MATTI", MOLTI POTEVANO ESSERE AIUTATI CON TERAPIA SIA FARMACOLOGICA CHE PSICHIATRICA MA CI VOLEVANO TROPPI SOLDI, TROPPO PERSONALE, TROPPO LAVORO E ALLORA LA SOLUZIONE E' STATA LA CHIUSURA DEI MANICOMI MA NESSUNA ALTERNATIVA SE NON PER QUELLI CHE AVEVANO SOLDI DA SPENDERE E FAMIGLIE ADEGUATE ALLE SPALLE.
IL RISULTATO E' STATO CHE I "MATTI" SONO TORNATI A CASA E LE FAMIGLIE SPESSO SI SONO RITROVATE A GESTIRE UNA PERSONA INCONTROLLABILE, MAGARI VIOLENTA, SENZA NESSUNA PREPARAZIONE PER FARLO.
DICIAMOLO FRANCAMENTE IL "MATTO" SPESSO FA PAURA PERCHE' IL PIU' DELLE VOLTE NON SI RIESCE AD AVERE UN DIALOGO, MAGARI UNO PSICHIATRA SAPREBBE COME FARE, MA LA PERSONA COMUNE NO NON LO SA.
QUANDO ERO BAMBINA NELLA MIA ZONA VIVEVA UN NANO CON QUALCHE PROBLEMA MENTALE, POTEVA AVERE FRA I 40 E I 50 ANNI, SI CHIAMAVA PIETRUCCIO E.............ERA IL TERRORE DEL QUARTIERE. NON PERCHE' FOSSE PERICOLOSO, TUTT'ALTRO, MA PERCHE' NEL PENSIERO COMUNE ERA VISTO COME IL DIVERSO E LE NOSTRE MADRI LO USAVANO COME SPAURACCHIO DEL GENERE "SE NON MANGI CHIAMO PIETRUCCIO" E COSE SIMILI. LUI NON DAVA FASTIDIO A NESSUNO CAMMINAVA NEL QUARTIERE TUTTO IL GIORNO, FACEVA LA SPESA, FACEVA I SUOI GIRI E POI TORNAVA NELLA STRUTTURA RELIGIOSA DOVE VIVEVA, FORSE NON HO MAI NEMMENO SENTITO LA SUA VOCE E SOLO DA ADULTA HO CAPITO CHE ERA UN POVERO INFELICE CHE A CAUSA DELLA SUA STATURA E DEI SUOI PROBLEMI ERA DIVENTATO UNA SORTA DI FENOMENO DA BARACCONE.
COME DICEVA BASAGLIA SONO ESSERI UMANI E COME TALI VANNO TRATTATI, CON DIGNITA' E RISPETTO. MA SIAMO CAPACI DI FARLO? I MANICOMI SONO CHIUSI MA LE PERSONE CON PROBLEMI MENTALI, "I MATTI" VENGONO AIUTATI SUL SERIO? SECONDO ME NO.
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Nonnalory
Una cosa alla volta un giorno dopo l'altro
Sono nata cieca. A volte sono triste, ma poi penso ai ragazzi meno fortunati di me, quelli che mi prendono in giro. A loro è andata peggio. Sono nati senza cuore.
Cecilia Camellini (Campionessa olimpica alle paralimpiadi 2012)
A noi la malattia ci fa un baffo!
http://anoilamalattiacifaunbaffo.blogspot.com/


Tutto inizia nel 1975 con lombosciatalgia bilaterale e curata come tale, senza alcun risultato, per 12 anni. Nel 1987 diagnosi di Sacroileite alla quale nel 2007 si è aggiunta una Pancolite (infiammazione cronica dell'intestino), da metà dicembre 2007 diagnosi di spondiloartrite (ogni tanto cambia il nome della malattia, quello definitivo pare essere enteroartrite) farmaci: balzide per l'intestino, azatioprina, e, al bisogno, cortisone e indometacina per l'artrite. Ad aprile 2010 intervento di artroprotesi 4° dito mano dx.
Da novembre 2014 problemi di calo linfociti con conseguente sospensione di azatioprina. Da meta' marzo 2015 iniziato metotrexate che pero' ho dovuto sospendere dopo due mesi per sopraggiunti effetti collaterali. Nel 2015 diagnosi di gastrite cronica sempre causata dai problemi autoimmuni. Da novembre 2016 ripreso azatioprina e si e' aggiunta la psoriasi. A conti fatti la diagnosi attuale sembra essere artrite psorisiaca con infiammazione intestinale e gastrite tutto riconducibile ad autoimmunita'


Amicizia è la capacità di dare senza chiedere nulla.E' la spalla su cui piangere, è una mano che stringe la tua e ti consola.E' anche la capacità di ascoltare i silenzi, grazie per aver ascoltato i miei
Silvia
Messaggi: 2005
Iscritto il: 12/10/2009, 22:40

Re: IO PER LUI ERO LUCA…..MA NEI SUOI OCCHI VEDEVO ME

Messaggio da Silvia »

CIAO.....
LULU', ROSARIA E LOREDANA
scusate l'intrusione ....
intanto GRAZIE DA PARTE MIA MA SOPRATTUTTO GRAZIE DA PARTE LORO : RedFace :

Silvia

...ma aspettatemi ... arriverò anch'io ;)
" ... Noi siamo E il problema E la soluzione del problema..."
Silvia
Messaggi: 2005
Iscritto il: 12/10/2009, 22:40

Re: IO PER LUI ERO LUCA…..MA NEI SUOI OCCHI VEDEVO ME

Messaggio da Silvia »

questa è la mia DI opinione ....

Rispetto alla de-istituzionalizzazione

Tale "processo" - di de-istituzionalizzazione - ha determinato l'entrata del malato di mente nel mondo dei diritti, il suo accesso alla cittadinanza sociale,
il moltiplicarsi di possibilità, di opportunità per lui, e, in ultima analisi, per l'intera comunità.

Ha definito il passaggio da un circuito di controllo e di custodia, quello manicomiale, ad un circuito di presa in carico e di produzione di salute quello territoriale.

Le pratiche coercitive e violente della psichiatria manicomiale sono state sostituite con pratiche di consenso, condivisione e convivenza.

La distanza e l'anaffettività si è andata sostituendo con la vicinanza e la “complicità”.
L'oggetto del lavoro degli operatori della salute mentale ha orientato il suo sguardo non più alla malattia, ma all'esistenza del soggetto.

La pericolosità sociale non più legata in modo esclusivo alla patologia in se, ma anche alla assenza di risposte dei servizi.
La “cronicità” è stata rivalutata anche in virtù dell’eredità storica: l’internamento!.

Dopo la promulgazione della L.180, si è posto fine al manicomio, anche se più in relazione all’impegno degli operatori che delle leggi finanziare/economiche che sì esistono ma che non sono ancora sufficienti.
Il manicomio si è “estinto come luogo fisico, come luogo di produzione della malattia”, anche se il "paradigma dell'internamento", in misura decisamente ridotta, fa ancora “capolino”.
I problemi di cui la società dovrebbe occuparsi e su cui tutti dovremmo riflettere e vigilare sono: il superamento del pregiudizio e la costruzione di una rete di servizi territoriali "forti", ma soprattutto, ritengo sia necessaria, l’assunzione tangibile di responsabilità da parte di tutti
- non solo di chi opera con e per loro - tutto ciò al fine di scongiurare “la costruzione di una nuova cronicità”.


Rispetto alle strutture riabilitative-terapeutiche

Il “sapere psichiatrico” è stato attraversato negli ultimi anni da una profonda trasformazione, con la conseguente attivazione di un significativo cambiamento.

Questa “metamorfosi” è un evidente riferimento di un processo storico che ha visto il passaggio da un intervento in cui gli obiettivi erano di ordine pubblico e di controllo sociale ad un intervento centrato sulla persona indirizzato alla promozione di attività fondamentali per la prevenzione, la tutela,
la cura e la riabilitazione.

La nascita delle comunità riabilitative, ha introdotto progetti e percorsi terapeutici al fine di permettere ai pazienti, di acquisire la possibilità di una reintegrazione sociale.

Questi nuovi approcci costituiscono quindi, sia il “mezzo” terapeutico, che il “fine” della terapia. E’ indiscutibile che si ricorre a queste strutture quando
il perdurare del paziente nella collettività generale è divenuto impossibile o, significativamente frustrante.

Dovere essenziale della comunità riabilitativa quindi è quello di “mediare” il difficile rapporto fra paziente ed ambiente sociale; relazione intessuta da angosce che il soggetto di bisogno esprimerà con il rifiuto esplicito del rapporto sociale, con ambivalenze repentine e con coartazioni emotive.

E, l’ambiente dal canto suo, con rifiuti più o meno espressi, alternando comportamenti “caritatevoli” ad altrettanti di “freddezza, scherno” potrebbero essere emblematici di un voler continuare a mantenere la distanza.

Facendo riferimento sia alle teorizzazioni di "grandi uomini" e grazie al loro contributo la struttura riabilitativa indipendentemente dalla assistenza alta o media che sia è percepita come “luogo” che permette l’attivarsi di “un’area transazionale”.

Le persone che usufruiscono delle strutture terapeutiche sono coloro i quali non possiedono uno spazio psichico interno sufficientemente strutturato ad ospitare pensieri ed emozioni.
Spesso, queste persone, “vivono” in modo esasperato e incontrollato un unico significato della realtà interna come ad esempio l’aspetto persecutorio,
che impedisce loro ogni altra possibile traduzione e spostamento verso “realtà diverse”.
Tale spazio interno è come se fosse “occupato” meglio sarebbe dire “invaso”, da un “qualcosa” che non lascia altri margini per altre esperienze da soggettivare.
Ecco perché si ritiene necessario proporre un ambiente che fornisca le condizioni sia per realizzare esperienze transizionali che per provare a crearne di nuove.
Motivazione per cui quando si parla di “spazio” di “abitare” non se ne parla come puro e semplice risiedere in un luogo ma come dimensione da far propria, adattandola al proprio sé e ricevendo in cambio stimoli per la costruzione del sé.

Invece certi ospiti stanno nelle strutture terapeutiche-riabilitative come se non ci abitassero, come se fossero di passaggio, in altri, invece, prevalgono esigenze protettive tanto da utilizzare i confini della comunità come una barriera difensiva.
Entrambi gli approcci però devono essere considerati espressioni di una sofferenza di non poco conto.

Le comunità riabilitative non sono certo il rimedio universale al problema della sofferenza mentale tuttavia sono una delle possibili risorse all’interno di una rete articolata, differenziata di servizi, con obiettivi e metodi diversificati che ne delineano la specificità.

E ancora, le strutture riabilitative si configurano così come un “altrove” esterno purtroppo dal contesto sociale dove opera una rete di servizi quali quelli del DSM dove “finisce” chi non ce la fa o, chi, non riesce a mantenere un comportamento, un livello di autosufficienza conveniente alla vita sociale e familiare.

Questa situazione - secondo il mio parere - deve essere meritevole di attenzioni e riflessioni poiché potrebbe contribuire anche alla demoralizzazione del personale delle comunità che rischia di sentirsi investito di funzioni poco terapeutiche ed educative ma ancora una volta custodialistiche,
se pur particolarmente benevole.

Affinché queste risorse possano davvero funzionare sono necessari, imprescindibili contatti ed incontri con la “rete sociale”, costituita dalla famiglia stessa del soggetto di bisogno per la quale – secondo la mia opinione – vengano predisposti gruppi di terapia, di sostegno affinché costituire ulteriori punti di riferimento.
Solo costruendo dei punti di riferimento stabili, fermi, definendo con il soggetto di diritto e coinvolgendo la famiglia - per chi ce l’ha - la permanenza,
in struttura, gli obiettivi e i fini prefissati è possibile evitare o almeno tentare di sfuggire all’ ”annullamento del tempo”.

Il prendersi “cura” di un malato psichiatrico è un percorso lungo e duro che deve essere gestito con continuità, responsabilità, ma soprattutto,
- secondo la mia opinione - in modo integrato.

Le strutture riabilitative allora diventano risorse, strumenti preziosi purché siano “elementi essenziali” di un percorso, di un processo in divenire,
di una interazione di reti, il tutto gestito in sinergia prima, durante e dopo.

nel mio piccolo....

Silvia ( alias Paperino? )
" ... Noi siamo E il problema E la soluzione del problema..."
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